Amici dell’ associazione Madre Speranza
Dalle poche notizie in internet sapete l’essenziale della Cooperativa: che lavora da anni per il servizio di Carità ai Nonni e al personale dipendente di vario colore, razza, nazionalità, religione. Un ideale e uno sforzo come segno dei tempi e come segno del camminare nello Spirito del Vangelo!
Gli sforzi sono stati enormi!
I risultati sono stati ottimi per i nonni, nonché per i dipendenti, che hanno goduto di rispetto, stipendio e tredicesima regolare, ferie e permessi… (ad eccezione di pochi che avvelenati da idee e persone nemiche non ci hanno distrutto ma messo in ginocchio).
Credo che onestà, impegno e fede ci abbiamo portato a risultati eccellenti!
Invochiamo visite per conoscerci e per favorire il VOLONTARIATO, ANIMA DELLE CASE DI CARITA’!!
Per tenere in alto INIZIAMO UNA SERIE DI “TESTIMONIANZE”, che con alti valori umani e cristiani, stimolino impegno, volontariato e carità.
Ecco la testimonianza di Jeremias Thomas:
Sedicenne in fin di vita: «Giovani, è in Dio la libertà!» Poco prima di morire Jeremiah ha lasciato un messaggio alla sua generazione: «Combatti la cultura della morte, l’aborto, la lussuria, lasciati alle spalle l’inganno e la disperazione! Siamo una generazione senza padri, alla ricerca di identità. Ma nostro Padre celeste sta con le braccia spalancate, invitandoci a tornare a Lui…Se stai attraversando la depressione, se combatti la malattia, se contempli il suicidio o l’aborto, c’è una vita abbondante in Cristo».
Avere 16 anni, sapere di essere ad un passo dalla morte e desiderare di dare battaglia fino alla fine, con quel senso di lotta cristiana che il mondo adulto fatica a consegnare alle nuove generazioni. Anche per questo la testimonianza del giovane americano, Jeremiah Thomas, malato di cancro e salito al cielo il 26 agosto, è uno schiaffo al borghesismo e all’arrendevolezza del “tanto è impossibile”. Jeremiah è diventato noto al pubblico quando nel suo letto di ospedale ha avuto la possibilità di parlare con il governatore pro life del Texas, Greg Abbot, per chiedergli di abolire l’aborto legale, ricevendo come risposta la promessa di impegnarsi, perché il tentativo è «nell’agenda del partito repubblicano».
Ma fra le ultime cose che il giovane ha voluto fare, circa due mesi prima di morire, c’è stata quella di reclutare la sua generazione tramite un video messaggio in cui legge una lettera: «Ci sono molti modi – comincia Jeremiah – per essere coraggiosi nel mondo, qualche volta il coraggio significa dare la vita per qualcosa di più grande di noi o per qualcun altro. A volte il coraggio significa mollare tutto quello che hai conosciuto o tutti quelli che hai amato o tutto quello che hai voluto per qualcosa di più grande. Ma a volte non è così, a volte il coraggio non è nulla di più che stringere i denti nel dolore e affrontare il duro lavoro della vita quotidiana, il lento lavoro per una vita migliore».
Il giovane, figlio del fondatore di Operation Save America (un’associazione cristiana che combatte l’aborto), spiega di essere «cresciuto nella prima linea di una battaglia in corso, chiamata aborto, per l’anima della nostra nazione. È un olocausto nascosto che ha spazzato via un terzo della nostra generazione…mi ricordo di essere cresciuto guardando mio padre parlare con le donne che andavano verso i campi di morte, perciò volevo diventare un predicatore», ma prosegue, «nella mia famiglia siamo molto forti negli sport». Quindi l’altro sogno del giovane era quello di giocare a football come i suoi fratelli maggiori, anche perché la carriera del giovane nello sport, cominciata alle elementari, fu dal principio brillante. Jeremiah spiega però che «crescendo ho sempre tenuto un piede in Cristo e un piede nel mondo. Frequentavo la chiesa, studiavo la Bibbia…ma quando ero a scuola o con gli amici non potevo dire che conoscevo Cristo».
Finché nel 2017 non ricevette il battesimo: «Tornai a casa infiammato per Cristo», racconta. Perciò, come il padre, cominciò ad incontrare le donne fuori dalle cliniche abortive e a condividere l’incontro con Cristo con i compagni di scuola. Poi Jeremiah racconta la sua esperienza particolare e diretta con il Signore, la vigilia di Natale, quando fu preso da una forte commozione: «Pensavo fosse lo spirito natalizio, ma presto mi resi conto che era la presenza di Dio». Il ragazzo si offrì di lavare i piatti lasciando andare a letto il resto della famiglia, ma improvvisamente capì che non doveva lavorare ma mettersi a pregare, finché non si addormentò nello studio del padre: «Per due ore rimasi bloccato a terra, scosso dalla presenza di Dio…Sapevo che Dio mi stava chiedendo di più. Ho iniziato a sentire una voce. Era quasi come se stesse parlando in me…Era il Signore! Stava parlando a me!».
Dopo le vacanze ricominciò la stagione sportiva di basket e «dopo una partita tornai a casa con un piccolo infortunio. Una piccola botta sulle costole» e anche se «faceva molto male…avevo cominciato a giocare e mantenni il mio impegno. Tenevo le costole ben fasciate così non mi davano troppo fastidio». Ma una sera cominciarono a fargli malissimo e «mi faceva male anche la schiena. Il mal di schiena era atroce… gridavo. Mia madre e mio padre si svegliavano e mi tenevano mentre facevo smorfie di dolore». I medici all’inizio pensavano si trattasse di scogliosi ma il dolore peggiorò perciò Jeremiah venne sottoposto ad una Tac. Dopodiché il medico lo ricevette insieme ai genitori: «I momenti successivi furono di confusione, mentre il mio mondo veniva capovolto. L’unica cosa che riuscivo a capire è che avevo un tumore nel petto e che era maligno. Stavo morendo».
Fu qui che tutto quanto il ragazzo desiderava svanì in un colpo: «Il mio sogno di giocare a football all’Università era morto. Il mio sogno di diventare pastore era morto. Siamo stati assolutamente colti di sorpresa…avevo così tanti piani e obiettivi per l’anno. Non potevo accettare la notizia di avere un tumore maligno, non ancora. Non adesso. Forse un tumore a settant’anni. Potevo morire a settant’anni, non a sedici anni». La cosa impressionante è che la preoccupazione di questo 16enne era quella di poter vivere per Dio e per questo si ribellava: «Pensavo di poter servire Dio solo se fossi stato in salute», ma «non sapevo che Dio avrebbe usato la mia malattia per raggiungere le persone perse e incoraggiare i fratelli in tutto il mondo».
Poi Jeremiah aggiunge che «dopo alcuni mesi di cancro..ho perso i miei capelli, la mia capacità di camminare, cinquanta chili di muscoli sani…la mia carriera nel football. Ma non ho perso la mia fede e la speranza in Dio». Anzi, «la mia fede in Lui è stata rafforzata. Sono cresciuto molto più vicino al mio Salvatore, sapendo benissimo che la mia vita è nelle sue mani. Lui è stato con me in ogni momento, guidandomi e insegnandomi». Il ragazzo ha quindi esortato i suoi coetanei ad avere «fiducia in Dio perché mantenga i tuoi piedi saldi e ti sostenga. In meno tempo di quanto serve per giocare una stagione calcistica completa, la mia vita è stata assorbita dal cancro. Non so quanto tempo mi è rimasto su questa terra, ma quello che voglio è che sia per Dio e per la mia generazione».
Poi l’appello fatto senza un filo di tentennamento con una forza e sicurezza difficilmente reperibili in un adolescente moderno: «Questa è la mia chiamata alla mia generazione, “Lasciati tutto alle spalle e torna a casa!”…“scegli la vita così che tu e i tuoi figli possiate vivere” (Deuteronomio 30, 19). Siamo cresciuti nella cultura della morte, della confusione sessuale, dell’immoralità dell’assenza del padre. Questa cultura della morte consiste nell’aborto, nell’omosessualità, nei suicidi». Oltre alle vittime dell’aborto il giovane ricorda i «25 milioni di persone morte per colpa dell’Hiv». Poi aggiunge che, come il figliol prodigo, «abbiamo preso le benedizioni del nostro Padre celeste e ci siamo allontanati da Lui. Abbiamo dilapidato la nostra eredità divina e non siamo ancora tornati al Padre. Quanto male deve ancora avvenire per svegliare la nostra generazione?».
Il quadro descritto è atroce, ma la speranza che comunica Jeremiah in fin di vita è ancora più grande: «La mia chiamata a voi oggi è di tornare al Padre. Lasciati alle spalle l’oscurità, l’inganno e la disperazione. Siamo una generazione senza padre, senza leggi, alla ricerca di identità. Nel frattempo, il nostro Padre celeste sta con le braccia spalancate, invitandoci a ritornare a Lui attraverso la buona notizia del Vangelo del Regno di nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo». È lui la risposta, assicura: «Se stai attraversando la depressione, c’è speranza in Cristo. Se combatti la malattia, c’è guarigione in Cristo. Se stai contemplando il suicidio o l’aborto, c’è una vita abbondante in Cristo».
Poi, da vero soldato, fa l’ultimo sforzo: «L’aborto è più che sbagliato. È un abominio. È l’omicidio di un bambino innocente. Trasforma le madri in assassine e gli uomini in codardi. L’aborto va contro tutto ciò che Dio ha voluto: ha creato gli uomini per proteggere le donne e i bambini…perciò l’aborto è più di una semplice “questione femminile”, è un omicidio che dovrebbe essere penalizzato dalla legge. È dovere della nostra generazione alzarsi in piedi affinché l’aborto sia abolito. È ora di svegliarsi e resistere al male dei nostri giorni. C’è una battaglia da combattere e ci sono anime da salvare. Tutti gli altri si uniscono alla confusione…ma la vera ribellione è andare controcorrente».
Infine lo sprone ai suoi coetanei liberal convinti di andare controcorrente e contro l’establishment al potere: «Tu sei l’establishment! I tuoi professori sono progressisti. I tuoi genitori sono probabilmente progressisti. I tuoi amici sono liberal. La musica che ascolti è liberal. Hollywood è liberal, quindi i film che guardi sono liberal», perciò «se vuoi essere un ribelle nei campus universitari combatti per la libertà!…È tempo di lasciarci alle spalle il nostro peccato, l’incredulità, la ribellione e la lussuria…Facciamo un viaggio per salvare la fede nella Casa del Padre. È lì e solo lì che troveremo luce, amore e vita».